lunedì 5 marzo 2012

In morte di un anarchico e di un commissario

«Ma io se fossi Dio
non mi farei fregare da questo sgomento
e nei confronti dei politicanti sarei severo come all’inizio
perché a Dio i martiri
non gli hanno fatto mai cambiar giudizio.
E se al mio Dio che ancora si accalora
gli fa rabbia chi spara
gli fa anche rabbia il fatto che un politico qualunque
se gli ha sparato un brigatista
diventa l’unico statista.
Io se fossi Dio
quel Dio di cui ho bisogno come di un miraggio
c’avrei ancora il coraggio di continuare a dire
che Aldo Moro insieme a tutta la Democrazia cristiana
è il responsabile maggiore
di vent’anni di cancrena italiana.
Io se fossi Dio
un Dio incosciente, enormemente saggio
c’avrei anche il coraggio di andare dritto in galera
ma vorrei dire che Aldo Moro resta ancora
quella faccia che era.»
(Giorgio Gaber, Io se fossi Dio)

Giovedì scorso ho visto Morte accidentale di un anarchico di Dario Fo in un teatro/pub vicino a casa mia. Lo spettacolo si può interpretare come una sorta di processo immaginario al commissario e al questore, dalla cui finestra è volato un anarchico. Piano piano un pazzo improvvisatosi giudice fa venire fuori le varie incongruenze presenti nelle prime versioni della polizia spingendo a condannare moralmente la figura dei due poliziotti. Chi conosce un minimo la storia italiana degli anni di piombo avrà già capito dalla trama che il riferimento è alla morte di Giuseppe Pinelli.

Lo spettacolo non mi è particolarmente piaciuto, è sicuramente interessante e c'è qualche momento molto divertente, ma è un po' troppo pesantuccio, specie verso la fine. Detto questo, il tema in sé mi ha lasciato molto combattuto, perché lo spettacolo di fatto ignora che fine abbia poi fatto quel commissario, anche a causa del clima creatosi per la fortissima campagna di accuse a lui rivolte (clima a cui ha contribuito questa stessa commedia, visto che è stata rappresentata la prima volta appena un anno dopo la morte di Pinelli, prima dell'omicidio del commissario Calabresi).

Negli anni, gran parte dei firmatari dell'appello contro Calabresi se ne sono pentiti e la figura del commissario è stata in qualche modo santificata (anche in senso letterale, o quasi), un po' come nel caso di Aldo Moro a cui allude Gaber nella sua bellissima canzone. Questa commedia invece rimane ferma al tempo delle accuse, coerentemente, ma anche cocciutamente, perché, se è vero che l'omicidio di Calabresi non cancella le colpe della polizia (e, di Calabresi stesso, che comunque qualche colpa l'aveva), è anche vero che quella vicenda è stata la dimostrazione più chiara di quanto pericolose siano le parole e quindi, quantomeno a posteriori, credo che un po' di delicatezza a parlare dell'argomento sarebbe stata opportuna.
Insomma, al mio Dio probabilmente i martiri non gli farebbero cambiare giudizio, ma sicuramente gli farebbero pesare un po' meglio le parole.

P.S. Sull'argomento segnalo il bellissimo libro del figlio di Calabresi, Spingendo la notte più in là, e questa risposta di Dario Fo alle critiche (vagamente simili alle mia, ma decisamente sgraziate) di Pierluigi Battista.

Nessun commento: